Caso De Magistris: questione di legittimità costituzionale della Legge Severino

Il T.A.R. Campania Napoli accoglie con ordinanza la domanda cautelare proposta dal Dott. Luigi De Magistris contro  il provvedimento del Prefetto di Napoli, emesso in data 1.10.2014, di accertamento costitutivo della sussistenza della causa di sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco del Comune di Napoli.

Il Collegio ha ritenuto infatti rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 11, co. 1, lett. a), D. Lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 (in vigore dal 5 gennaio 2013, c.d. legge Severino), in relazione all’art.10, co. 1, lett. c) del medesimo D. Lgs., per contrasto con gli artt. 2, 4, co. 2, 51, co. 1 e 97, co. 2, Cost., laddove applicata retroattivamente, cioè, secondo quanto argomenta il Collegio, a fatti (illeciti penali) anteriori alla candidatura del prevenuto e alla stessa entrata in vigore del D. Lgs. n. 235/2012 nonché accertati con sentenza non ancora passata in cosa giudicata – anch’essa, se si è ben inteso, anteriore (2012) alla candidatura e all’entrata in vigore del D. Lgs. in parola.

In mancanza di una normativa transitoria o comunque di disposizioni specifiche al riguardo, occorre far riferimento ai principi generali dell’ordinamento tenendo conto del fatto che l’art.11 delle Disposizione sulla Legge Generale recita che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e trova riscontro anche nell’art. 25 comma secondo che sancisce come nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso.

Dall’analisi di questi due principi, e come sottolineato dalla ricorrente, per applicare la disciplina del  d.lgs 235 del 2012 è quindi necessario non solo che la sentenza avvenga dopo l’entrata in vigore di tale testo ma soprattutto che il fatto, per essere qualificato come delitto, debba avvenire successivamente all’emanazione del dettato legislativo.

Tenendo conto di quanto espresso la ricorrente fa valere tale vizio in virtù di un’applicazione retroattiva di tale testo considerato che prevede come causa di sospensione, decadenza e incandidabilità, la condanna non definitiva per alcuni delitti tra cui quello del 323 c.p.

Giova rammentare come però-la giurisprudenza amministrativa di legittimità abbia escluso la retroattività delle previsioni normative suddette (Consiglio di Stato V Sezione 6 febbraio 2013 n. 695; Consiglio di Stato V Sezione, 29 ottobre 2013 n. 5222; TAR Lazio II bis, 8 ottobre 2013 n. 8696), ritenendo applicabili le cause ostative anche laddove la sentenza di condanna penale irrevocabile sia intervenuta in un tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia il 5 gennaio 2013. Il collegio, in questi determinati casi, si è rifatto alle pronuncia della consulta ove veniva interpretata la condanna penale irrevocabile come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive. Inoltre la Consulta rilevava che non si tratti di irragionevole limitazione del diritto di elettorato di cui all’art. 51 della Costituzione poiché si tratta di gravi delliti tali da avere una rilevanza tale incrinare il giudizio di dignità morale del soggetto e tale da esigere l’incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive già in corso al momento dell’emanazione del dettato legislativo. (Corte Cost. sentenza 118/1994)

Il Collegio rileva che non venga esclusa la possibilità di applicare retroattivamente la su citata legge ma giustifica il superamento di tale limite  attraverso il bilanciamento operato dal legislatore che ritiene prevalente l’interesse alla salvaguardia della moralità degli apparati pubblici sull’efficacia retroattiva di tale disposizione.

Inoltre, i principi espressi nelle citate pronunce non consentono di risolvere in via interpretativa anche i pregiudiziali problemi di compatibilità costituzionale della normativa applicata al caso concreto dal momento che la vicenda sottoposta all’esame del Collegio riguarda un provvedimento di sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna penale non definitiva trattandosi quindi di una fattispecie diversa non solo dai differenti effetti che ne conseguono ma soprattutto perché non si riesce ad evincere alcuna situazione di indegnità morale nel caso in cui non ci sia un provvedimento definitivo.

I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto di retroattività ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti; la natura sanzionatoria della sospensione e l’efficacia retroattiva di tale norma.

Per ciò che riguarda il primo punto il Tar non vuole disallinearsi da quanto espresso dalla consulta ma va sottolineato come ciò avvenga senza alcuna valutazione del fatto concreto, rifacendosi quindi a una presunzione assoluta di inidoneità ad occupare quella carica elettiva. Senza dimenticare il fatto che, dietro la natura sanzionatoria, possa celarsi l’esistenza di ulteriori finalità.

Per ciò che concerne il secondo presupposto, costituito dall’efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva, il Collegio ritiene che urti con la pienezza e il regime rafforzato dei diritti costituzionalmente garantiti. In questo caso, infatti, qualora si rimetta al legislatore di modificare i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono valenza primaria anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione primaria e quindi anche l’art. 11 delle Preleggi che, tutelando la efficacia della legge nel tempo, fa si che una sua violazione comporti anche la violazione del diritto che la Costituzione espressamente tutela e protegge.

Giova rammentare, infatti, come l’art. 51 della Costituzione sebbene affidi alla legge l’individuazione dei requisiti per l’accesso alle cariche pubbliche, quindi ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente.

Si aggiunge che la forza di tale assunto s’intensifica nel caso della sospensione dalla carica applicata al ricorrente  tenendo presente come l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali.

Per quanto appena esposto e soprattutto in mancanza di una norma transitoria risulta complicato per il Collegio stabilire sulla compatibilità costituzionale di tale dettato soprattutto per il caso in cui venga decretata la sospensione dagli incarichi prima che il provvedimento si sia reso definitivo. Secondo il Tar infatti si tratta di un eccessivo sbilanciamento in favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto all’ampio favor da riconoscersi alle facoltà di pieno esercizio del diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51, primo comma della Costituzione, da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma.”.

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